Le elezioni americane hanno un sapore epocale non tanto per la vittoria di Trump, già aveva vinto nel 2017, ma per l’impegno diretto in politica dei grandi oligarchi della Silicon Valley su cui tra tutti spicca Elon Musk.
La composizione del blocco sociale che sostiene Trump che, sinteticamente si identifica nell’ America profonda colpita dalla globalizzazione e dalla deindustrializzazione del Paese, viene egemonizzata e diretta dalla punta più avanzata del capitalismo digitale e non solo. Penso si possa dire senza timore di essere smentiti che tale quadro si configura come una potente reazione al declino economico e politico degli Stati Uniti.
Le prime mosse del neopresidente hanno definito in cosa si sostanzia il nuovo corso. Aggressività nei confronti dei Paesi Europei, mire sui Paesi confinanti per ristabilire il proprio dominio attorno al cortile di casa, individuazione violenta del capro espiatorio nell’immigrazione quale cemento ideologico del proprio blocco sociale, nuova politica estera mirata a dare sostanza e discontinuità con il passato.
Sicuramente Trump arriva preparato a questo mandato e lo sarà anche nel confronto interno dove per la prima volta, come rilevato da Domenico Moro nell’articolo “Quali sono gli scenari futuri della Presidenza Trump” su questa rivista, nei settori dominanti americani c’è una spaccatura profonda sulla politica estera.
Sarebbe, però, un grave errore sopravvalutare Trump in questa svolta e sottovalutare Elon Musk ed il gruppo che rappresenta. Trump ha davanti questo mandato di quattro anni e, a meno di cambiamenti ora non prevedibili, poi non sarà ricandidabile. Elon Musk, invece, sembra rappresentare il presente ed il futuro della reazione americana.
Nel governo Trump, in posti chiave, ci sono uomini legati al gruppo che ne 2007 fu definito “Pay Pal mafia” per una foto scattata dalla rivista “Fortune” in abiti da gangsters. Questo gruppo nasce dai fondatori e dipendenti di Confinity, una società che gestiva la Pay Pal ovvero un servizio di trasferimento di denaro. I membri più importanti di tale gruppo sono Peter Thiel, David O. Sack e, appunto, Elon Musk. Usciti da Pay pal molti di loro sono diventati il cuore pulsante della Silicon Valley. Insieme alla potenza economica e comunicativa hanno sviluppato una propensione a definirsi attorno ad un loro profilo ideologico che può essere sintetizzato in “libertario e conservatore”. Da non confondere la parola “libertario” con quella in uso spesso anche a sinistra. Il senso profondo è quello di distruggere ogni mediazione sia in politica che nella comunicazione prefigurando un sistema di potere finemente autoritario. Insieme al diretto coinvolgimento nel governo politico, il comando sulla comunicazione, che diventa una forma di propaganda, si innesta nel superamento del ruolo dei media tradizionali e nel rafforzamento apparentemente “libero” dei social nella formazione dell’opinione pubblica mondiale. A questo concetto fa riferimento il dibattito sull’assenza dei “filtri” nei social media.
Nel precedente governo Trump nel ruolo di Musk c’era proprio Peter Thiel e nella nuova compagine oltre a Musk, che è il capo della nuova efficienza governativa, JD Vance, protetto di Thiel, è diventato il vicepresidente. JD Vance e Sacks sono stati nominati consiglieri del presidente per l’intelligenza artificiale e le criptovalute.
La forza economica, finanziaria e politica di questo gruppo ha spostato tutto il gotha, da Zukerberg a Bezos su questo carro. Questa forza è davvero impressionante. Se solo pensiamo che Elon Musk con Starlink ha in orbita circa sei mila satelliti che permettono un’altissima velocità nella trasmissione e ricevimento dei dati. Tale sistema, che si sta diffondendo in tutto il mondo, rende Musk e la sua azienda il player principale nella gestione e comunicazione dei dati oltre a fargli detenere uno strumento formidabile anche sul piano militare. Passa spesso in secondo piano, ma il fatto che la Nasa si serva dell’azienda di Musk per i suoi lanci, dà la misura di cosa si stia parlando.
Nel personaggio Musk, però, c’è un qualcosa di più inquietante. L’uomo bianco sudafricano, boero, figlio di un padre benestante ma violento ed esponente del partito nazionalista pro-apartheid, che ha lasciato il Sudafrica all’età di diciassette anni quasi in corrispondenza della messa in libertà di Nelson Mandela e della fine dell’Apartheid, che possiede un patrimonio di circa 450 miliardi di dollari e che prefigura la colonizzazione umana di altri pianeti, sembra incarnare più di altri lo spirito di questa reazione americana. Azzardo l’ipotesi, che spero la realtà smentisca, che abbiamo di fronte un personaggio che nel rompere ogni schema abbia le potenzialità per trasformare quel macchiettistico saluto romano in qualcosa di meno simbolico ma più concretamente sfidante verso il resto del mondo. Non v’è dubbio, altresì, che le malridotte istituzioni del vecchio continente e il processo in corso negli Usa tolgono il velo d’ipocrisia sull’occidente culla della democrazia e quale argine mondiale alle cosiddette autocrazie. Nello scontro globale in atto e con il riarmo galoppante sembra proprio che il capitalismo stia chiudendo i conti con le forme più o meno avanzate di democrazia conosciute dopo il secondo dopoguerra.
La prima fase del nuovo governo americano ha come obiettivo la frantumazione dell’Europa. Una frantumazione che c’è sempre stata, che solo occhi offuscati da un europeismo privo di fondamenti reali potevano non scorgere. Gli interessi divergenti tra i principali Paesi europei hanno sempre prevalso su quelli convergenti. Ora, di fronte alla crisi, non possono che mostrarsi in tutta la loro evidenza. Su questi agirà il governo americano.
In tale quadro i più atlantisti in Europa, penso ad esempio al Pd o alle forze politiche che hanno dominato la scena fino ad oggi in Francia ed in Germania, sono in evidente confusione. “Mamma America” non è più il vincolo e la “gonnella” a cui aggrapparsi per giustificare le proprie scelte.
La guerra in Ucraina ha messo in ginocchio l’economia della locomotiva tedesca ed ora ogni Paese sarà spinto da Trump a trattare per sé. In questo senso la presenza di Meloni all’ incoronazione di Trump non è solo un segnale di vicinanza politica. In questo quadro la premier italiana, che rappresenta l’unico governo stabile tra i più importanti Paesi europei, può giocarsi delle carte importanti.
Infine, in prospettiva si avvicina ancora di più il confronto tra Usa e Cina. La disponibilità cinese a coprire il finanziamento che verrebbe a mancare dalla fuoriuscita degli Usa dall’Oms è il segnale che l’aggressività americana ha nella Cina il vero contraltare. Un elemento questo di cui nel dibattito europeo non si potrà non tenerne conto.
Questi elementi rendono chiaro che il nuovo corso a stelle e strisce non prevede un ripiegamento verso l’interno, tutt’altro. Tale corso si prefigura come una nuova strada attraverso cui provare a realizzare lo slogan principale della campagna elettorale trumpiana “fare di nuovo grande l’America”. Possibile che Trump inizi congelando il conflitto in Ucraina, seppur anche questo non è scontato, e gestisca, visto l’indebolimento dell’Iran, il conflitto in Medioriente, improbabile che la sfida di fare di nuovo “grande l’America” non prefiguri conflitti nel medio periodo.
Staremo a vedere. Senza dubbio sarà un’epoca, quella che abbiamo di fronte, in cui l’alternativa alla barbarie diventa oggettivamente sempre più urgente. E l’alternativa non può guardare il proprio ombelico ma capire cosa stia accadendo e quali siano le contraddizioni su cui agire al fine di cambiare il corso potenziale della storia.