CRISI USA, NON E’ SOLO TRUMP

Tutti abbiamo visto l’assalto al Campidoglio di Washington, ossia alla sede del Congresso americano, il 6 gennaio scorso, da parte di centinaia di sostenitori di Donald Trump in occasione della proclamazione di Joe Biden a vincitore delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, e, di conseguenza, a futuro presidente degli States.

Che le tensioni che ruotano attorno al cambio di presidenza fossero molto elevate, era ampiamente noto. Lo stesso Trump ha contribuito non poco ad alimentare gli stati d’animo già esacerbati, negando a lungo la legittimità della vittoria del suo rivale. Mai era accaduto che un presidente uscito battuto avesse contestato in modo così vigoroso la validità dei risultati elettorali e della sua sconfitta.

Ma, certo, pochi si aspettavano che i suoi “fans” sarebbero arrivati addirittura a dare l’assalto alla sede del Congresso americano, entrandovi dentro e facendo anche diversi danni. Peraltro approfittando di un controllo e di una repressione insolitamente blande. Forse anche colpevolmente blande.

L’azione, che non ha precedenti nella storia degli Stati Uniti, ha ovviamente suscitato scandalo e soprattutto stupore e incredulità.

Com’era facile immaginare, la grancassa mediatica – rappresentante delle grandi lobbies e del capitale finanziario e simpatizzante per Biden – ora punta l’indice in sostanza solo contro Trump e le varie tendenze “populiste”. Il problema, dunque, sarebbe per loro legato solo ad una minoranza “sovranista”, “negazionista”, quando non estremista.
Il desiderio dell’elite liberista USA – ma anche di quella europea – è quello di stigmatizzare l’accaduto, attribuendone le cause a qualche scheggia impazzita, aizzata dall’ormai ex presidente Donald Trump. E i vari social (Facebook, Twitter, ecc) si sono, di conseguenza, affrettati a bloccare il suo account.

Come se ciò risolvesse qualcosa. Anzi, semmai proprio l’opposto, dal momento che quest’ultima azione dà l’idea di una vera e propria censura.

 

Ma la verità è un’altra.

Tanto per incominciare c’è un dato oggettivo che risalta: Trump è stato, tra i candidati alla presidenza usciti sconfitti, quello che ha preso più voti della storia americana, raggiungendo praticamente la metà dei voti validi. Oltre 74 milioni di voti ottenuti da Trump sono poco meno degli 81 milioni di Biden.

Non si tratta dunque di frange minoritarie. Il “Tycoon” rappresenta settori molto vasti della società nordamericana, che vanno dalla piccola e media borghesia ai grandi imprenditori, ma con un respiro locale o nazionale. E anche – andrebbe detto – non pochi lavoratori. Soprattutto quelli del Mid-West.

Sono tutti settori che – chi in un modo, chi nell’altro – nei decenni scorsi sono stati danneggiati dalla cosiddetta “globalizzazione”, nonché dalla crisi economica, la quale, già ben prima dell’arrivo del Covid 19, falcidiava migliaia di imprese e portava ad un aumento sempre più preoccupante della disoccupazione e della povertà.

Alla faccia della tanto decantata ripresa.

Oggi naturalmente la situazione è ulteriormente e drammaticamente peggiorata.

 

Lo scontro – del tutto inedito nella sua portata – tra Donald Trump e Joe Biden, riflette quindi dei contrasti via via sempre più accesi all’interno della stessa società statunitense.

Tuttavia il forte e crescente malcontento, in una società come quella nordamericana, si esprime come può. La storica assenza di riferimenti politico-ideologici e di classe, fa sì che tale contrasto assuma connotazioni per lo più di tipo etnico – è il caso, ad esempio, del movimento “black lives matter”, e, all’opposto, dei vari movimenti razzisti – oppure con venature di tipo nazionalistico.

 

Ma una cosa appare evidente: la cosiddetta “middle-class” – termine per la verità assai improprio, dal momento che comprende tanto la piccola e media borghesia, quanto i lavoratori relativamente benestanti – è sempre più in crisi. Questa “middle-class” negli scorsi decenni è stata la base di un consenso all’establishment USA che sembrava inattaccabile, mentre ora si trova in crescente difficoltà e si sta sempre più sfaldando.

Un altro sintomo significativo di tale mutamento lo vediamo nell’incredibile sostegno che è riuscito ad ottenere un candidato come Bernie Sanders, che dichiara apertamente il suo orientamento politico semi-socialisteggiante. Una cosa del tutto impensabile solo fino a pochi anni fa in un paese come gli USA.

 

Non è dato sapere come si evolverà in futuro la situazione negli Stati Uniti, né quali forme assumerà questo crescente scontro sociale nella società yankee. E soprattutto quali riflessi potrebbe avere nella politica internazionale del futuro Governo-Biden, oltre che su quella interna.

Ciò che tuttavia appare certo è che negli USA il giocattolo sembra essersi rotto e che le tensioni sociali, esplose prima con le diverse manifestazioni e sparatorie a seguito dell’uccisione dell’afro-americano George Floyd e ora con le contestazioni per gli esiti elettorali, culminanti con l’assalto al Congresso americano, sono destinate a durare nel tempo. E anzi, con tutta probabilità ad inasprirsi ancora di più.