ASPI, NIENTE NAZIONALIZZAZIONE MA SALVATAGGIO STATALE DEL CAPITALE TRANSNAZIONALE

La decisione del Consiglio dei ministri di non procedere alla revoca della concessione ad autostrade per l’Italia (Aspi) non è soltanto un salvataggio in extremis dei Benetton, ma rappresenta, nel nuovo modello di azienda che si configura, una modalità di salvataggio del capitale transnazionale e di interessi europei da parte dello Stato italiano.

La revoca della concessione avrebbe portato al fallimento di Aspi, che avrebbe coinvolto non solo la Atlantia dei Benetton, che la controlla all’88%, ma anche multinazionali straniere, che sono presenti nel capitale di Aspi, e alcune istituzioni europee. Un eventuale default avrebbe reso insolventi 9 bond di Aspi comprati dalla Bce e sarebbe finito in crisi il finanziamento da 1,3 miliardi erogato dalla Bei. Soprattutto avrebbe comportato grosse perdite per gli altri azionisti di peso di Aspi. Si tratta di Appia, che detiene il 6,94% di Aspi, e del fondo governativo cinese Silk Road, che ne detiene il 5%. Non è un caso che la Merkel, nell’incontro con Conte prima del vertice dei capi di governo della Ue sul Recovery Fund, si fosse detta curiosa di sapere come sarebbe andato il Consiglio dei ministri che doveva decidere in merito alla sorte di Aspi. Infatti, in Appia è presente la tedesca Allianz, che è il primo gruppo assicurativo mondiale, Edf, che è la maggiore società produttrice e distributrice di energia della Francia, e  Dif, che è un fondo olandese di investimento. Tutte aziende di Paesi importanti, che, guarda caso, giocano un ruolo decisivo anche nelle trattative in corso sul fondo di ricostruzione europeo. Ma il capitale multinazionale è presente anche in Atlantia, dove le minoranze contano il 40% dell’azionariato e vedono la presenza di colossi come la statunitense Blackrock e il fondo di investimento di Singapore. In Edizione, la holding dei Benetton, che  controlla a sua volta Atlantia, è presente anche la statunitense Goldman Sachs, una delle più grandi banche d’affari del mondo.

Come si può facilmente intuire sono gruppi importantissimi che possono muovere molti miliardi con  grande facilità e che non hanno mancato di esercitare la loro pressione sul governo italiano. A luglio del 2019 Silk Road inviò una lettera all’allora ministro dell’economia, Tria, in cui, esprimeva tutta la sua preoccupazione per le dichiarazioni fatte da alcuni membri del governo sulla possibile revoca della concessione: “L’atteggiamento preso dal governo italiano dopo il crollo del ponte di Genova è oggetto di grande preoccupazione per tutti quelli che hanno investito sia in Atlantia sia in Autostrade per l’Italia, cosi come in altre aziende in Italia”[1]. La minaccia, per niente velata, era quella di un ritiro del capitale estero dai suoi investimenti in Italia in mancanza di un quadro di certezze per i suoi profitti.

La soluzione decisa dal governo italiano prevede un piano costituito da vari passaggi, che diminuirà la quota della famiglia Benetton in Aspi e gradualmente la porterà fuori dalla società. Il primo è un aumento di capitale, realizzato facendo intervenire Cassa depositi e prestiti (Cdp) nel capitale di Aspi con una cifra tra i 3 e i 4 miliardi, pari a una quota tra il 31 e il 33%. In questo modo diminuirà il peso sull’azionariato complessivo della famiglia Benetton (al 37%) e degli altri azionisti. Allo stesso tempo verrà ceduto da Atlantia il 22% delle azioni a investitori qualificati indicati da Cdp, tra i quali si ipotizza ci siano Blackstone e forse F2i e Macquaire. La cordata dei nuovi azionisti dovrebbe trovarsi riunita in un unico veicolo finanziario che controllerebbe il 60% del capitale. Successivamente si realizzerà lo scorporo di Aspi da Atlantia con l’attribuzione delle quote di Atlantia agli altri soci di Aspi. La presenza dei Benetton si ridurrà all’11% attraverso Sintonia, una subholding controllata dalla holding Edizione. In questo passaggio avverrà anche la quotazione in borsa della società che dovrà avere un flottante, cioè una quantità di azioni effettivamente negoziabili in borsa, di almeno il 50%. L’attrattività per i fondi di investimento dovrebbe rimanere alta, visto che l’incremento annuo della tariffa dell’1,75% dovrebbe essere sufficiente a remunerare il piano di investimenti di 14,5 miliardi e a garantire un ritorno netto vicino al 7%.

La famiglia Benetton ha molte ragioni per essere soddisfatta dell’accordo. In primo luogo evita il fallimento di Aspi, che avrebbe trascinato con sé tutto il sistema di scatole cinesi di cui la famiglia si serve per controllare i suoi molteplici investimenti. L’11% che a regime rimarrà nelle mani dei Benetton verrà venduto non appena sarà conveniente farlo, cioè quando la nuova Aspi vedrà risalire il suo valore azionario. In secondo luogo lasceranno ai nuovi soci gli oltre 9 miliardi di debiti accumulati dalla vecchia gestione di Aspi. Infine, i capitali della famiglia verranno spostati da settori colpiti dalla pandemia, come autostrade, aeroporti, la ristorazione e il retail verso settori più appetibili, tra i quali c’è l’asset più pesante della holding Edizione (con una capitalizzazione di borsa di 21,4 miliardi), la spagnola Cellnex, attiva nel settore delle torri, cioè delle infrastrutture delle telecomunicazioni wireless, di cui è leader in Italia, che trae beneficio dalla sempre maggiore centralità della comunicazione a distanza nell’era del Covid-19.

Secondo quanto emerge dal piano del governo il modello della nuova Aspi ricalcherebbe quello di altre multinazionali italiane, Eni e Leonardo, in cui lo stato ha una quota importante ma dove c’è una presenza diffusa di azionariato privato multinazionale. La nuova società sarà una versione italiana del modello anglosassone di public company, in cui ci sono molti investitori senza soci di riferimento. Il capitale pubblico è quindi integrato con quello privato, e la cosa più importante è che la nuova società continuerà a muoversi con criteri privatistici legati alla realizzazione del massimo profitto. Quindi si tratta di tutt’altro che di nazionalizzazione, ma di una pura operazione di mercato: il monopolio artificiale costituito dall’infrastruttura autostradale rimane, come ai tempi dei Benetton, funzionale a offrire al capitale transnazionale, costituito da società finanziarie e fondi di investimento, occasione di alti profitti in un settore non esposto alla concorrenza e quindi al ribasso dei prezzi. In pratica il mercato (monopolistico) rimane il dominus della nuova Aspi. È il classico esempio del cambiare tutto perché non cambi nulla.

 

[1] https://carlofesta.blog.ilsole24ore.com/2020/07/14/battaglia-aspi-grandi-investitori-esteri-rischiano-azzerare-propri-investimenti/