LA MINIMUM TAX SULLE MULTINAZIONALI COME ELEMENTO DELLA LOTTA TRA STATI

La proposta di riforma del sistema fiscale internazionale, basato sull’introduzione di una tassa minima globale (minimum tax), dopo essere stata approvata dal G7, è stata votata a grande maggioranza anche dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), con 130 Paesi favorevoli sui 139 che la compongono. La proposta di riforma fiscale consiste nell’introduzione a livello internazionale di una imposta minima del 15% sui profitti delle multinazionali e nell’obbligo a pagare le tasse lì dove la multinazionale realizza i propri guadagni. Le reazioni da parte dell’establishment internazionale sono state entusiastiche. Janet Yellen, segretaria al Tesoro statunitense, definisce quella della votazione dell’Ocse “una giornata storica per la diplomazia economica”, lo stesso presidente Joe Biden ha parlato di “un importante passo in avanti verso una economia più giusta”. In Europa il ministro delle finanze tedesco Scholz ha definito l’accordo un “colossale progresso” mentre il suo omologo francese, Le Maire, ha detto che “è il più importante accordo dell’ultimo secolo”. Infine, il commissario Ue all’economia, Paolo Gentiloni ha affermato che è “un passo storico verso una tassazione più equa delle multinazionali”.

La proposta di introdurre un limite minimo del 15% nasce dal fatto che le multinazionali negli ultimi anni hanno spostato la loro sede fiscale in Paesi con imposizioni fiscali più basse, eludendo il fisco dei Paesi dove realizzano i loro profitti. Lo spostamento dei profitti è una delle conseguenze della globalizzazione. A livello mondiale esiste un ampio divario sulla tassazione dei redditi d’impresa. Si va da una imposizione fiscale del 55% negli Emirati arabi al 5,5% delle Barbados, ma ci sono Paesi dove non esiste alcuna tassazione dei redditi d’impresa, come le Bahamas e il Bahrein, i cosiddetti paradisi fiscali. Sì è così determinata una corsa dei vari Stati ad accaparrarsi gli investimenti delle multinazionali attraverso il ribasso dell’aliquota fiscale. Questo si è verificato anche in Europa, che secondo Tax Foundation, un ente di ricerca statunitense, ha una imposizione media del 20,27%, che, come valore medio regionale, è il più basso a livello mondiale. Ma anche all’interno dell’Europa ci sono molte differenze. In particolare, mentre, da una parte, abbiamo Paesi come l’Italia (aliquota del 27,8%), la Francia (32%) e la Germania (29,9%), dall’altra parte, ci sono Paesi che hanno aliquote molto basse e che sarebbero più danneggiati dalla tassa minima globale. L’Irlanda ha una imposta sui redditi d’impresa del 12,5% e presenta agevolazioni che hanno favorito l’elusione fiscale o consentito di pagare imposte irrisorie alle multinazionali. In questo modo, l’Irlanda è riuscita a portare a Dublino il quartier generale di Google, Apple e Facebook, determinando un aumento artificioso del Pil che ha fatto mettere in dubbio, tra gli istituti nazionali di statistica, la validità dello stesso concetto di Pil per definire la ricchezza reale di un Paese. Con l’introduzione della tassa minima globale si calcola che l’Irlanda perderebbe due miliardi di euro di entrate all’anno.  L’Ungheria ha l’aliquota più bassa dell’Ue (9%), che ha sfruttato per attrarre massicci investimenti stranieri nel settore automobilistico e manifatturiero. Infine, l’Estonia ha una imposta sugli utili che oscilla tra il 14% e il 20%, che si applica solo in caso di dividendi, cioè non si applica in caso di utili reinvestiti. Va notato che tutti e tre questi Paesi hanno votato contro la tassa minima globale all’ultimo incontro dell’Ocse.

In realtà, non pare che la riforma fiscale globale soddisfi le aspettative che ha generato, giustificando le dichiarazioni entusiastiche che abbiamo riportato sopra. Il perimetro delle imprese multinazionali che rientrano nei criteri per imporre la tassa è stato ridotto rispetto al progetto iniziale. Il primo pilastro della riforma, quello che impone di redistribuire l’imposizione fiscale nei paesi dove si realizza l’attività produttiva o si fattura, esclude le banche e le società di estrazione di materie prime e riguarderà solo le corporation con oltre 20 miliardi di fatturato, cioè una ottantina di società di cui sono solo 8 le big-tech su cui si era concentrata la Ue. Inoltre, il 10% dei profitti resterà fuori della base imponibile, mentre l’eccedenza sarà tassabile solo in una percentuale tra il 20% e il 30% dell’ammontare. Dopo avere calcolato l’imponibile, questo verrà assegnato ai vari Paesi aventi diritto che non saranno però tutti quelli in cui la multinazionale è presente ma solo quelli dove il fatturato raggiunge il milione di euro. In buona sostanza, il beneficio di cassa di cui beneficeranno gli Stati oggi vittime delle pratiche elusive delle multinazionali non sarebbe tale da poter finanziare le spese cresciute per la crisi del Covid-19. Un esempio di come la realtà tributaria sia diversa dalla teoria fiscale è il risultato della web tax italiana, che del resto è destinata ad essere riassorbita dalla minimum tax. A fronte di 780 milioni attesi si sono registrati solo 250 milioni di incassi. Lo stesso gap tra aspettative e realtà riguarda anche il secondo pilastro della riforma fiscale internazionale, il limite minimo di imposizione fiscale del 15%, che prevede l’esenzione per alcune tipologie di imprese, fra le quali le società di trasporto internazionale aereo e via mare. Inoltre, visto che l’imposta verrà applicata sul bilancio consolidato, cioè il bilancio comprensivo di tutte le attività internazionali della multinazionale, bisogna tenere conto del fatto che a livello mondiale ci sono criteri diversi per la sua redazione, così come ci sono criteri diversi per calcolare l’imponibile. Questo richiederà un lavoro molto complesso e lungo di individuazione di punti di convergenza significativi da concretizzare in accordi multilaterali. Infine, l’elemento più importante è rappresentato dall’aliquota stessa del 15% che è molto bassa, appena 2,5 punti in più di quella in vigore nella tanto vituperata Irlanda. Nulla vieta agli Stati che hanno un’aliquota superiore di abbassarla fino al 15%. Del resto, il presidente dell’Ocse, Matthias Corman, ha tenuto a precisare che la proposta della sua organizzazione non è tesa a eliminare del tutto la competizione fiscale e a imporre un regime identico ovunque, ma a definire delle limitazioni concordate in modo multilaterale. La concorrenza fiscale rimane, solo con un limite inferiore. Rispetto alle aspettative generate dalle dichiarazioni dell’establishment politico internazionale, è un po’ come la storia della montagna che ha partorito il topolino.

Quindi, la tassa minima globale non è un fattore di aumento del gettito fiscale né una misura perequativa a livello sociale, bensì un fattore di redistribuzione del gettito fiscale globale a favore degli Stati più grandi e più forti e a sfavore di quelli più piccoli e deboli. Non è un caso che la proposta di minimum tax al 15% venga dagli Usa, lo Stato imperialista più importante. In pratica, si assiste a una accelerazione della competizione tra Stati per la spartizione del gettito fiscale del capitale internazionale, dovuta alla necessità di finanziare le accresciute spese per far fronte alla crisi generale del sistema capitalistico, acuita dalla pandemia. La tassa minima globale rientra nel nuovo ruolo, maggiormente interventista, che lo Stato sta assumendo in quella che sembra essere una nuova fase storica, che la pandemia non ha certo causato ma di cui sicuramente ha accelerato e accentuato lo sviluppo. Una fase storica che vede la fine della prima fase della globalizzazione, e la ridefinizione di una nuova fase caratterizzata – come ho evidenziato in altri articoli precedenti – oltre che dalla partecipazione statale al capitale delle imprese, anche da un maggiore impulso verso il protezionismo, dall’accorciamento delle catene produttive internazionali (le global value chain), e dalla relativa internalizzazione delle produzioni di importanza strategica.

Questo, però, non significa che gli Stati sviluppino politiche antimonopolistiche e contro le multinazionali, che, invece, continueranno a beneficiare di forti sconti nel pagamento delle imposte. In generale, i sistemi fiscali nazionali tendono a ridurre la pressione fiscale sulle imprese, come dimostra anche la recente proposta delle commissioni Finanze del Parlamento italiano di eliminare l’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive, che, varata nel 1997, tra le altre imposte precedenti, inglobò anche il contributo per il sistema sanitario nazionale. La sua eliminazione, quindi, metterà in difficoltà il reperimento delle risorse per la sanità pubblica. Insomma, per attuare una vera redistribuzione del reddito attraverso le imposte ci vuole ben altro che la tassa minima globale. La congiuntura politica odierna non è certo favorevole a che si prenda una tale direzione. Per farlo ci vorrebbero tutt’altri rapporti di forza tra capitale e lavoro salariato rispetto a quelli che ci sono oggi. L’unica soluzione alla piaga dei paradisi fiscali e alla corsa al ribasso delle imposte sul capitale sarebbe una legislazione che imponga il controllo statale sui flussi dei capitali, ma questo è praticamente impossibile da attuarsi nel contesto capitalistico attuale e con degli Stati che sono espressione organica degli interessi del grande capitale multinazionale. Ciò non toglie che la proposta politica generale dei comunisti debba riguardare, tra i vari aspetti, anche la questione dell’imposizione fiscale, che, dato quanto abbiamo scritto, non può che essere inquadrata nel contesto internazionale.