L’altra metà del cielo. Tutti i giorni è 8 Marzo

«Non dimenticate mai che basterà una crisi politica,
economica o religiosa affinché i diritti
delle donne siano messi in discussione.
Questi diritti non sono mai acquisiti.
Dovrete stare attente alla vostra vita»
Simone de Beauvoir

 

Brevi dati a livello nazionale dai dati ISTAT del 2016: il differenziale retributivo delle donne rispetto agli uomini è, nel settore privato, pari al 12,2% in meno. Lo svantaggio femminile aumenta con il crescere delle retribuzioni orarie sia a livello territoriale che settoriale. Aumentando il livello di istruzione aumenta anche il divario retributivo. Per le posizioni con laurea ed oltre la retribuzione femminile è di 16,1€ contro i 23,2€ degli uomini.

Nella nostra vita sindacale, tra una esternalizzazione ed una cassa integrazione, tra una solidarietà e le lettere di richiamo che arrivano a rotta di collo ai fini di licenziamenti, i rapporti delle pari opportunità sono stati per lungo tempo accantonati, perchè considerati velleitari di fronte alle emergenze occupazionali dell’intera azienda. Tuttavia alcune donne dalla RSU, compreso che le emergenze non sarebbero mai terminate, hanno preso questi rapporti, li hanno studiati, inviando quindi il risultato alla loro organizzazione sindacale ed inviando un comunicato a tutti i lavoratori che è stato molto apprezzato.

I rapporti tra azienda e sindacato sulle pari opportunità e quindi sull’attenzione verso la popolazione femminile di una determinata azienda, hanno inizio con la legge 125 del 91, sostituita quindi dal d.lgs. n. 198 dell’11 aprile 2006.

Le leggi, in realtà hanno un respiro molto più ampio, che noi delegate donne abbiamo dimenticato: vogliono incoraggiare le assunzioni delle donne ed la loro permanenza nel mondo del lavoro attraverso pratiche virtuose che favoriscano la formazione ed i percorsi di carriera con una particolare attenzione all’orario di lavoro.

Le leggi, inoltre, sanciscono la commissione nazionale delle pari opportunità, atta proprio a scegliere e sovvenzionare tali pratiche vistuose. E’ necessario anche ricordare che tali leggi partono dall’Art 37 della Costituzione, che si riferisce proprio alla parità salariale tra i due generi.

Il d.lgs. n. 198 del 2006 specifica che la Commissione Nazionale delle pari Opportunità deve fornire al Ministero delle Pari Opportunità i dati a livello nazionale.

Il ministero delle Pari Opportunità ha avuto, come sappiamo, vita breve: è nato nel 1996 ed è terminato nel 2013 dopo che l’ultima ministra Josefa Idem è stata costretta alle dimissioni. Da allora il Ministero delle Pari Opportunità non esiste più.

Comunque sia, l’articolo 9 della legge 125 superato dall’art. 46  dal d.lgs. n. 198 del 2006 obbliga le aziende, con una popolazione superiore a 100 dipendenti, a redigere almeno ogni due anni ed inviare il rapporto sulle pari opportunità sia alla commissione di parità regionale, sia alla commissione di pari opportunità, sancita a livello aziendale da un contratto di II livello. E’ la commissione delle pari opportunità che richiede in continuazione il rapporto.

Il rapporto, recentemente semplificato, contiene i dati della popolazione aziendale, delle assunzioni, dei licenziamenti, delle dimissioni, dell’accesso agli ammortizzatori sociali, dell’accesso alla formazione e ai percorsi di carriera, della retribuzione che ormai regola anche la contribuzione ai fini pensionistici. Il tutto con il di cui sulla popolazione femminile. Quindi il rapporto non è solo utile per comprendere la vita aziendale al femminile, ma tutta la vita aziendale.

Sicuramente ottenere dalle aziende questi dati non è facile, perchè la legge “costringe” le aziende a redigere il rapporto, previo una multa ridicola, e non vi è alcuna sanzione se i dati sono errati, tanto che alcune aziende spesso inventano i dati, con un atteggiamento anche, oserei dire irrispettoso, percepiscono di perdere tempo. Sono arrivati in FIOM dei rapporti che evidenziano senza alcuna vergogna che le donne vengono pagate con 1€ l’anno.

In senso generale, in un mondo profondamente cambiato dal 1991, i dati che le aziende oggi forniscono rispetto alla vita delle donne nelle azienda sono davvero sconfortanti, la maggior parte delle delegate hanno appunto dimenticato la finalità della legge e si trovano di fronte la crudezza della loro vita aziendale che poi è ciò che viene snocciolato ogni 8 marzo, giornata internazionale della donna, momento in cui si fa il punto sui diritti civili delle donne e dei loro salari saldamente ancorate al 12,2% di media in meno rispetto ai colleghi maschi di pari livello.

Nel 2018 la popolazione femminile è la maggioranza delle popolazione nazionale, il 51,3%. Tuttavia, vedendo gli andamenti delle nascite degli anni, ad oggi, tra i neonati, le scarpette rosa sono meno. Quindi si può ancora dire che siamo più durature. A questo proposito ci piace ricordare una ricerca fatta dalla FIOM di una quindicina di anni fa su 500.000 lavoratori meccanici, evidenziò che le donne sanno sopportare meglio la routine, paradossalmente perchè sono più eclettiche, cioè trovano altri riscontri al di fuori del mondo del lavoro ed hanno una maggiore capacità di adattamento alle situazioni.

Le aziende d’altro canto, attraverso i PT femminili, hanno compreso che chi lavora in PT, è efficiente come un full time, usufruisce del tempo dedicato al lavoro in modo più veloce, essendo contingentati da un’uscita ravvicinata.

Le aziende hanno compreso talmente bene questo fenomeno che il PT è stato esportato nel mondo del lavoro in genere: molti lavoratori con contratti a tempo determinato o interinale sono in PT con la possibilità di fare molti straordinari. I datori di lavoro, inoltre, possono usufruire delle clausole elastiche e flessibili che permettono di modificare l’orario di un PT da un momento all’altro, secondo le esigenze di produzione. Il PT fa risparmiare all’azienda la contribuzione su un orario totale, e crea la famosa figura del lavoratore povero sia in termini retributivi che contributivi, che cioè diverrà sicuramente un pensionato povero.

Le donne vivono, comunque, da moltissimi anni questa situazione: rinunciano anche al 25% del loro salario e quindi della loro contribuzione per non essere schiacciate dalle dinamiche del tempo di cura, per la maggior parte, equivalente a quello lavorativo. E’ chiaro che molto si è fatto nella vita familiare, tuttavia molto si deve ancora fare affinchè i padri si occupino realmente dei figli, dottori vaccinazioni, scuola sostentamento, che sono solo una piccola parte dei compiti di cui le donne si sentono investite, che lo vogliano o no, tanto da preferire o lasciare il lavoro nei primi 3 anni di vita del minore, oppure mantenerlo, accedendo appunto al PT. Vogliamo anche ricordare che il PT femminile non viene sponzorizzato dal sindacato, perchè c’è la consapevolezza della penalizzazione del PT, sia in termini retributivi che come contributivi: lo scatto deve essere fatto al di fuori della sfera lavorativa e deve essere sociale e politico.

Man mano che si va avanti nella vita lavorativa, si diventa sempre più consapevoli che le lavoratrici “garantite” sono sempre di meno. Il motivo è ovvio: le donne vivono fuori casa per almeno 8 ore e mezzo al giorno solo per il lavoro, cui si deve aggiungere il tempo di viaggio che prevede giornalmente e normalmente anche 2 ore in più.

E nella vita aziendale? Le donne vengono percepite come coloro che dedicano meno tempo alla vita lavorativa, che sono meno disponibili a rimanere fuori orario, se non per ciò che è realmente straordinario. Da qui discende lo stereotipo che le riguarda: nelle aziende private, se le donne non rimangono fino ad orari tardi, per i responsabili non esistono e da qui il dislivello economico che è sempre anche contributivo tra i due generi. Le aziende private basano gli aumenti di merito e i bonus sulla “meritocrazia”, cioè sulla misurazione dell’efficienza (velocità nel lavoro) e dell’efficacia (validità del prodotto) del lavoro dei dipendenti, concetti fin troppo spesso sostituiti dalla semplice permanenza in azienda che passa per “disponibilità nei confronti dei superiore”.  Sono appunto i superminimi ed i bonus che definiscono il gap salariale tra i 2 generi.

In un’azienda tra le più evolute, nonostante ci sia una maggioranza di donne nei livelli più bassi, il V ed il VI livello, gli uomini prendono nel V livello 209 € lorde in più, nel VI 411, nel VII, dove è la maggior parte della popolazione aziendale, si arriva 454€, con una differenza annuale di 6.367 (per 14 mensilità) che visti così non è piacevole. Ovviamente le donne sono discriminate anche rispetto all’accesso alla formazione ed ai percorsi di carriera. E se questo accade in un’azienda grande e con un livello di istruzione alto, si può immaginare cosa può accadere in aziende piccole e meno “evolute”.

Come commissione delle pari opportunità ci fregiamo di aver reinizializzato, se ci si passa questo termine, questo discorso: i nostri fogli di calcolo sono stati condivisi nella FIOM della provincia di Milano, sono stati raccolti i dati di quella provincia: hanno risposto 16 aziende metalmeccaniche con una popolazione di 35.000 lavoratori in tutta Italia: da queste aziende risulta che la popolazione femminile è il 29% del totale; le operaie al 13% salgono al 35% nel settore impiegatizio, per riscendere nelle qualifiche di funzionari (23%) e dirigenti (17%).

Da un punto di vista retributivo gli stipendi femminili risultano più alti nei livelli più bassi, dal 1° livello al 5°, risultano pressocchè coincidenti con quelli maschili al 6° livello,  per poi abbassarsi nei livelli successivi (7,8 e dirigenti), considerati più apicali dove si palesa maggiormente la differenza salariale tra i generi.

Tutto lo studio è stato presentato in un convegno dedicato alle donne in FIOM e poi ripreso nell’ambito del Congresso Nazionale dell’Organizzazione. E’ arrivato alla segreteria nazionale della FIOM e della CGIL e si sta ragionando come attuare una politica valida per superare questo divario attraverso il CNL, sempre se riusciremo ad ottenere un nuovo CNL.

Vero è che la vita lavorativa delle donne ha bisogno di un salto qualitativo culturale, politico e di investimenti: bisognerebbe invertire la rotta dei tagli alle politiche del welfare: le donne necessitano di asili nido, di supporto alla famiglia, di un welfare reale che se in alcune zone del nord Italia esiste e si percepisce (Sesto San Giovanni ha 7 asili nido senza alcun problema di graduatorie e l’ISEE serve solo per definirne i termini di pagamento), già in una città come Roma l’asilo comunale non è un aiuto reale per le famiglie, talmente è complicato l’accesso. La crisi economica e le politiche di austerity imposte dall’Europa non aiutano, come per molti settori, neanche questo, anzi le donne sono spesso chiamate a sopperire alle mancanze del welfare nazionale racchiuse nella gestione della cura di tutta la famiglia non solo dei propri figli.

Così, nelle aziende con forte presenza impiegatizia, se nel 2009 la popolazione femminile era effettivamente l’altra metà del cielo, superando con una certa abbondanza il 40%, ora è poco più di un terzo, quello che è sindacalmente definibile come una cospicua minoranza.

La diseguaglianza salariale tra uomini e donne è stata definita globalmente come il più grande furto della storia. Le aziende della provincia di Milano hanno evidenziato un risparmio di 9,5 milioni di euro all’anno sul lavoro femminile.

Parlare di accesso al lavoro e di un salario equo ed equivalente a quello dell’altro genere è il primo tassello di cui le donne necessitano per avere il rispetto e la consapevolezza non solo individuale, ma sociale e politica. Il divario salariale tra i due generi non dovrebbe essere neanche elemento di discussione e negoziazione. Il problema è che in Italia si è partiti dal concepire il salario femminile come un’aggiunta rispetto al reddito familiare. La crisi ha reso però molte famiglie monoreddito, il concetto stesso di famiglia è cambiato, il risultato è comunque che molte persone sono sole e le principali fonti del sostentamento sia per loro che per i loro figli. La parità salariale del 1956 di cui le nostre madri andavano fiere, sancita dalla costituzione del 1948, è caduta in un dimenticatio da cui è necessario riemergere, come è necessario recuperare l’occupazione femminile.

Non bisogna dimenticare che le esigenze e le battaglie delle donne hanno modificato leggi importanti nel mondo del lavoro e dei diritti, utili ad entrambi i generi, pensiamo per esempio all’esclusione ai turni notturni per chi ha  figli minori fino ai 3 anni e fino ai 12 qualora sia il lavoratore sia unico affidatario.

Parlare di violenza di genere se non si parte dal normale non ha senso, perchè il divario salariale è il primo step della violenza concepita come mancanza di rispetto verso l’altra metà del cielo.

E’ giunto il momento che la consapevolezza del divario salariale, sia conseguente, quindi di mettere in piedi tutto ciò che è possibile per la sua eliminazione.