Piazza Fontana e la psicologia delle masse

 

[Riceviamo e pubblichiamo]

Nell’anniversario del tragico 12 dicembre 1969, mi è capitata sott’occhi un’intervista allo Storico Miguel Gotor, titolata “Non chiamiamola strage di Stato” (1). Come spesso avviene, il titolo ingigantisce le parole dell’intervistato anche oltre il lecito, ma è significativo un passo dell’intervista dell’autore sul punto:

 

“La Strage di Stato è stato il titolo di un libro che ebbe molto successo all’epoca. Cosa pensa di questo concetto?

Fu un’espressione efficace sul piano politico, propagandistico e militante allora, ma oggi, dal punto di vista storico, la trovo insufficiente e persino ambigua. In primo luogo perché deresponsabilizza i neofascisti che ormai lo usano anche loro in questo senso. Se è stato lo Stato, nessuno è stato. Per capire, invece, bisogna anzitutto fare lo sforzo di distinguere. E poi perché, se è ormai accertato sul piano giudiziario e storico che nei depistaggi furono coinvolti esponenti degli apparati, dei servizi segreti e dell’ “Alta polizia” sopravvissuti al fascismo, vi furono anche magistrati come Pietro Calogero e Giancarlo Stiz o agenti come Pasquale Juliano che imboccarono da subito la strada della pista nera, con coraggio e andando controcorrente. Non erano anche loro esponenti dello Stato? Nella notte della Repubblica, nonostante il fango deliberatamente sollevato, il faro della giustizia e della ricerca della verità rimase acceso e non è giusto dimenticare l’impegno personale e professionale di quegli uomini con formule genericamente autoassolutorie.” (2)

 

Gotor si scaglia anche contro il concetto di “manovalanza neofascista” della strage. Partendo dal materiale processuale, che più di ogni cosa ha provato il coinvolgimento della “pista nera”, lo storico afferma che, ritenere i neofascisti dei puri esecutori, rischia di attenuare il loro ruolo militante nell’attacco alla democrazia.

Non c’è dubbio che, senza la partecipazione ed il concorso di una fitta rete di neofascisti, gli orrori delle bombe del 1969 non sarebbero venuti alla luce. Tuttavia, i distinguo di Gotor, alla fine non mi convincono, perché rischiano di anestetizzare la verità storica più importante che scaturisce da Piazza Fontana: lo Stato, macchina direttiva, pienamente responsabile, è intervenuto nelle dinamiche sociali, esercitando ed organizzando una sostanziale operazione sotto falsa bandiera, ed ha tentato di gestire la formazione dell’opinione e della coscienza dei cittadini, mediante tecniche afferenti alla psicologia delle masse.

Che all’interno dello Stato vi siano state figure individuali che abbiano esercitato un’azione meritoria in posizione di indipendenza non può sminuire la verità storica, per la quale la macchina direzionale statale ha imboccato, organizzato, costruito e sostenuto, fin dai primi momenti, un’operazione volta a creare tensione e caos, in un momento di lotta sociale, al fine di scaricare l’orrore su parti in lotta aventi proprie rivendicazioni contro il potere.

Non a caso, Gotor cita quale esempio di indipendenza i Magistrati delle Procure Venete. Ma questi furono soggetti istituzionali per loro natura indipendenti, soggetti che, comunque, per precetto costituzionale, non potevano essere direttamente ed impunemente riportati in rotta dalla macchina direzionale dello Stato.

Ben diverso fu il caso degli apparati di Polizia e dell’Esercito, i quali non solo non si discostarono da un sentiero poco virtuoso, ma che appaiono coinvolti in momenti anche precedenti alle bombe del 12 dicembre.

D’altronde, pochi passi prima, è lo stesso Gotor che si lancia giustamente contro un altro luogo comune, quello dei “servizi deviati”: “Non si può usare questo concetto quando furono i vertici del Sid (il vecchio servizio militare), cioè i generali Vito Miceli e Gianadelio Maletti, e i vertici dell’Ufficio Affari riservati (Umberto D’Amato e Silvano Russomanno) i principali promotori dei depistaggi, funzionali a occultare la pista nera con quella anarchica. Costoro promossero depistaggi di provocazione, di copertura e di omissione, in particolare non informando la magistratura di quanto già sapevano sull’effettivo ruolo svolto dai neofascisti nella strage e, in alcuni casi, aiutarono i neofascisti inquisiti a fuggire all’estero.” (3)

 

Quella destra cresciuta e coccolata all’interno dello Stato Atlantico

Al di là di ciò, la storia processuale ha dimostrato la collaborazione tra apparati dello Stato e neofascismo veneto intenti ad armare complotti sin da prima delle bombe del 12 dicembre.

Già nel 1966, Freda e Ventura fanno giungere a mezzo posta ad oltre duemila Ufficiali delle Forze Armate Italiane, appartenenti a comandi ed unità stanziati nel Triveneto volantini contenenti un appello per la formazione di “Nuclei a Difesa dello Stato”, con i quali rovesciare l’ordinamento vigente per imporre i rigidi principi dell’autorità e della gerarchia (4).

Ciò che è rilevante non è tanto il tenore istigatorio del volantino, ma il fatto che i due giovani neofascisti veneti, poco più che ventenni, erano in possesso degli elenchi, degli indirizzi, delle aggiornate assegnazioni degli Ufficiali di una delle regioni militari più sensibili d’Italia. Materiale informativo di tale importanza suggerisce collegamenti di una certa levatura, non solo con l’ambiente delle Forze Armate, ma anche con quello della NATO. Ruggero Pan, personaggio coinvolto nelle indagini per la strage del 12 dicembre ebbe a dichiarare di aver visto siffatti elenchi a casa di Ventura, nascosti all’interno di una gamba del tavolo (5).

Il Pubblico Ministero Alessandrini, nella sua requisitoria 13.12.1974, primo processo sulla Strage, affermò che sin dal 1966 Freda e Ventura erano in contatto con l’imputato Giannettini installato all’interno del SID (6), ma è verosimile che un tale materiale non potesse essere conosciuto e nemmeno liberamente utilizzato ed “agitato”, senza una certa inerzia o complicità dell’apparato NATO. Infatti, per molto meno, ed in anni più lassisti, altri furono accusati di spionaggio e condannati a pene detentive (7).

Sin dai primi momenti delle indagini, documenti ufficiali mostrano l’interessamento degli apparati dello Stato al filone nero dell’inchiesta, sviluppato dai Pubblici Ministeri veneti. Ecco cosa scrivono operatori veneti del SID al quartier generale ai primi di novembre del 1971, quando sta venendo alla luce un arsenale fornito anche di armi ed esplosivi verosimilmente utilizzati e procurabili solo all’interno delle dotazioni degli eserciti NATO, occultato a Castelfranco Veneto per conto di Freda e Ventura: “Non è stato possibile acquisire precisi dati di fatto sulle varie tappe dell’istruttoria e sulle motivazioni delle decisioni della magistratura, la quale si è chiusa in un riserbo impenetrabile e ha fatto capire, in occasione di cauti tentativi per eventuali approcci, di non gradire interferenza alcuna nell’inchiesta. Serpeggia da tempo l’impressione che la magistratura sia rimasta invischiata nelle mene di una vicenda intricatissima e che stia tentando ora una via d’uscita attraverso una serie di appigli procedurali. Tutta la questione potrà essere agevolmente ridimensionata”. (8)

 

Contro una situazione rivoluzionaria

L’azione dei settori direzionali dello Stato veniva così dipanata sia prima che dopo le bombe del dicembre 1969.

La situazione politica alla vigilia dello scoppio degli ordigni, il cosiddetto “autunno caldo” del 1969, rappresentava un momento di forte mobilitazione sociale delle classi lavoratrici che sicuramente destava preoccupazione ai capitalisti, ma costituiva una situazione da tempo monitorata da parte degli ambienti atlantici.

Paul Ginsborg ebbe a definire quel momento come “l’anno più sovversivo nella recente storia del movimento operaio italiano”(9), per le incisive forme di mobilitazione e sciopero praticate non solo da avanguardie operaie ma da un vero e proprio movimento di massa dei lavoratori, i quali ponevano in essere boicottaggi, scioperi autonomi dai sindacati, decise manifestazioni di piazza, fermate a gatto selvaggio, cortei ed occupazioni delle fabbriche.

Nel mezzo di questa mobilitazione, gruppi di avanguardia che vedono un momento magico: una grande massa di operai segue le loro idee ed applica la lotta rivoluzionaria in un grandissimo numero di stabilimenti della penisola, tanto da far pensare alla riedizione dei Consigli di Fabbrica Torinesi del Biennio Rosso. Dagli stabilimenti, per giunta, la mobilitazione si allarga a settori produttivi e di lavoro diversi e disparati: dai lavoratori agricoli, soprattutto nel Meridione, ai lavoratori ospedalieri, persino ai Vigli Urbani. Tanto che tutte le categorie dei lavoratori sono colpite da una vasta azione repressiva delle Forze dello Stato che comminano, nei mesi invernali del 1969 e 1970, ben 13903 denunce. (10)

Per effetto delle mobilitazioni e delle contraddizioni in campo, si sollevano contro lo Stato persino reparti di poliziotti, i quali  lo accusano di “trattarli come bestie” e carne da macello per la repressione delle contestazioni. A Milano, la sera del 19 novembre, proprio dopo l’uccisione del poliziotto Antonio Annarumma avvenuta nel corso di una manifestazione, si sollevano i poliziotti della Caserma di Pubblica Sicurezza di Sant’Ambrogio, contro le dure condizioni di vita imposte ai reparti, e con slogan contro il capo della Polizia Vicari.

Per le strutture del potere nazionale ed internazionale, per l’apparato atlantico, quella del 1969 viene verosimilmente giudicata una situazione potenzialmente prerivoluzionaria, forse in grado di generare un potenziale percorso di  distacco dell’Italia dal mondo del capitalismo atlantico, ed una possibile evoluzione della stessa verso il blocco socialista.

La strage del 1969, che entra a gamba tesa in questo periodo rivoluzionario, fu definita la “perdita dell’innocenza” per il nostro Paese, ed ha visto il coinvolgimento in prima persona di elementi degli apparati statali ed atlantici. Tuttavia, non può essere definita solamente come un tentativo di operazione sotto falsa bandiera, con l’utilizzo di elementi eversivi provenienti dall’estrema destra.

La strage dell’innocenza perduta ha costituito un esperimento in cui si è unita una false flag operation, con tecniche di psicologia di massa.

 

Masse e seduzione

Storicamente, si suole affermare che l’attenzione alla psicologia delle masse è nata con la Rivoluzione Francese. Non c’è dubbio che i processi politici originati dalla Revolution, passando per i moti del 48, la nascita della Prima Internazionale, dei Partiti Socialisti e della Grande Rivoluzione d’Ottobre hanno dato corso ad un percorso di redistribuzione del potere che ha portato ad inedito e sempre maggiore coinvolgimento delle masse nell’agone politico. I primi studi di Gustave Le Bon e Gabriel Tarde avevano avuto di fronte la Comune di Parigi e la nascita del socialismo. In particolare, il libro di Le Bon ebbe un successo mondiale, tradotto in moltissime lingue. Un famoso passo pone in evidenza l’importanza dell’elemento seduttivo nella comunicazione con vasti strati di popolazione. Le Bon riflette sulla differenza tra un piano istituzionale/razionale e un piano che potremmo definire discorsivo/seduttivo: “non è colle leggi sulle teorie della pura eguaglianza che essi vanno guidati, bensì con lo studio di ciò che li impressiona e li seduce” (11) Già Gabriel Tarde, però, suggeriva di allontanarsi dalla definizione di “folla” dell’amico Le Bon, per approdare alla categoria del “pubblico”, sottolineando la crescente importanza dei mezzi di comunicazione di massa. Per Tarde il pubblico era collettività spirituale diversa dalla folla delle piazze, una dispersione di individui fisicamente separati che si sentono coesi in maniera non fisica ma mentale. Su questa coesione, proprio la stampa ha un ruolo cruciale: ha il potere di “riunificare” le conversazioni degli individui nello spazio e nel tempo, imprimendole temi, direzioni, ritmo, gioco delle opinioni contrapposte, argomenti principali e secondari. Modernamente si potrebbe pensare che la stampa parla più colle omissioni e col silenzio che con la voce. Più tardi, studiosi di psicologia sociale dell’inizio del secolo, concordarono sul potere della stampa di annichilire lo spazio e rendere possibile l’ “uniformità” della moderna pubblica opinione.

Se da un lato prima Le Bon e poi lo stesso Freud riflettono sul fatto che l’individuo nella massa tende ad uno stato primitivo, in cui dominano gli estremi e le pulsioni e sono assenti dubbi o perplessità, plasmabili attraverso la suggestione veicolata nelle piazze, Tarde e gli psicologi sociali evidenziano che l’uniformità della pubblica opinione viene altresì plasmata attraverso i mezzi di comunicazione di massa, che sono evidentemente differenti dalla comunicazione di piazza. Negli anni 20 Walter Lippman, nel suo Public Opinion inaugura il concetto di “fabbrica del consenso”: partendo dal concetto che, nel complesso mondo moderno, informarsi indipendentemente ed autonomamente diventa un impresa titanica. Il cittadino conferisce allora fiducia ad una qualche fonte indicata come autorità: le istituzioni, la stampa ufficiale, i professionisti della comunicazione. Chi controlla tali fattori può allora mettere mano ad una “fabbrica del consenso”.

All’interno della stagione di Piazza Fontana, le comunicazioni dei soggetti istituzionali (il Questore di Milano, le voci degli inquirenti) si associarono all’informazione ritenuta “degna di fiducia”, in parte sotto il controllo della macchina direzionale dello Stato, in parte di quei poteri finanziari e industriali che condividevano con lo Stato il comune obiettivo di anestetizzare i focolai sociali. Chi non ricorda Bruno Vespa, allora inviato della televisione di Stato, presentare l’arresto del “colpevole” Pietro Valpreda?

Le emergenze processuali, però, ci dicono molto di più. Nella fabbricazione della pista anarchica ha avuto un ruolo fondamentale il giornalista del Corriere della Sera Giorgio Zicari. Come si seppe nel processo, Giorgio Zicari era anche un collaboratore del SID. Si trova “opportunamente” davanti all’ufficio del giudice istruttore Amati, dove Valpreda era stato convocato il 15 dicembre come testimone in merito ad una differente indagine. Da quell’ufficio Valpreda uscirà accompagnato da due agenti della squadra politica per essere poi arrestato per la strage. Zicari lo raccontò sul Corriere del 17 dicembre con una sorta di cronologia della strage, da perfetto uomo giusto al momento giusto. Sempre sulla strage, Zicari diede in pasto ai suoi lettori un collegamento tra gli attentati del 25 dicembre, attribuiti agli anarchici, e Piazza Fontana. Ricordò la retata di anarchici dopo le bombe alla Fiera Campionaria ed alla Stazione Centrale, avvenute poco prima, non mancando di menzionare che in tali retate cadde anche il Valpreda. (13) Lo Stato e la Stampa. Lo Stato Atlantico e la Stampa atlantica. La fabbrica del consenso in opera.

 

Piazza Fontana: occasione perduta per investigare il ruolo dello Stato

Altre decine di collegamenti potrebbero essere tracciati all’interno di questa analisi: tutti confermati dai dati oggettivi delle risultanze processuali. Tutti conducono ad individuare un ruolo direzionale della macchina statale nella stagione delle stragi.

Già Pasolini si lamentò che sotto la retorica delle sole piste nere si rischiava di perdere l’occasione per approfondire adeguatamente il vero ruolo dello Stato: “Io ho un’idea, magari un po’ romanzesca ma che credo giusta, della cosa […]  Gli uomini di potere […] comunque alcuni degli uomini che ci governano da trent’anni – hanno prima gestito la strategia della tensione a carattere anticomunista, poi, passata la preoccupazione dell’eversione del ’68 e del pericolo comunista immediato, le stesse, identiche persone hanno gestito la strategia della tensione anti-fascista. Prima hanno fatto la strage di Piazza Fontana accusando gli estremisti di sinistra, poi hanno fatto le stragi di Brescia e Bologna accusando i fascisti e cercando di rifarsi in fretta e furia quella verginità antifascista di cui avevano bisogno, dopo la campagna del referendum e dopo il referendum, per continuare a gestire il potere come se nulla fosse accaduto.” (14)

Quello stesso Stato, per Pasolini, già operava sulle coscienze delle masse trasformando e snaturando la cultura degli italiani per renderla conforme al nuovo credo del consumo di massa. Approfondire il suo ruolo, quando furono opposte alle rivendicazioni sociali la tensione delle stragi, rappresentava per Pasolini l’occasione di togliere una maschera importante. Una prassi concreta e rivoluzionaria, da opporre alla utopia liberale di Lippman, che derivava la possibilità di meglio conoscere dalla mera pluralità delle fonti informative.

Ecco perché l’opzione di Gotor mi convince poco: punta a riposizionare la prua sulla direzione più comoda per lo Stato, quella della rinnovata fiducia nella astratta imparzialità delle istituzioni da contrapporre alla “malvagità” dei fascisti. Quella astratta imparzialità che però permette di colpire impunemente e reprimere proprio alle istituzioni stesse.

Ciò è tanto più significativo, in quanto, oggi, il bisogno del “pericolo fascista, è diventato ancora una volta un’arma per nascondere, con operazioni di “fabbrica del consenso” l’autoritarismo dello Stato e dei vari governi di centrodestra e centrosinistra, tutti piegati agli interessi della grande finanza, delle organizzazioni neoliberiste, dei loro diktat e dell’agenda di guerra degli Stati Uniti e della NATO.

Questa stessa comoda via è stata spesso utilizzata per contrapporre la mitologia degli “uomini corretti” all’interno della Polizia e delle istituzioni, ai “servizi deviati”. Per citare un caso spinosissimo, un recente editoriale di Mario Calabresi paragonava nell’onestà due personaggi opposti e controversi della storia di Piazza Fontana: il padre all’epoca Commissario della sezione politica e Pinelli, che dalla finestra della sezione politica perse la vita. Parimenti, il film Romanzo di una Strage conferisce al Commissario Calabresi una verginità violata dagli apparati deviati dallo Stato, ricoprendo con una patina opaca la virulenza provocatoria di Cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri o di Sbatti il mostro in Prima Pagina, di Marco Bellocchio (1972).

Al di là della cinematografia, Pasquale Valitutti, l’anarchico che fu accompagnato in Questura con Pinelli, vivente, conferma ancora oggi l’esperienza di quel fermo, già resa nelle carte processuali: “Calabresi mi ha detto che stavano parlando scherzosamente del Pietro Valpreda, facendomi chiaramente capire che era nella stanza nel momento in cui Pinelli cascò. Inoltre mi hanno detto che Pinelli era un delinquente, aveva le mani in pasta dappertutto e sapeva molte cose degli attentati del 25 aprile” (15).

Marco Fini e Andrea Barberi ricordano il pesante coinvolgimento degli apparati di Polizia milanese anche prima della strage del 12 dicembre, nel condurre insistentemente il timone delle “piste anarchiche”. Nel terzo capitolo del loro libro Valpreda, Processo al Processo, del 1972, chiariscono come le indagini sugli attentati alla Fiera Campionaria e alla Stazione Centrale del 25 aprile 1969 rivelano chiaramente il gioco della magistratura milanese e della Polizia: “Calabresi e Allegra gettano la maschera di poliziotti democratici, aperti al colloquio con i gruppi della sinistra (Pinelli e gli anarchici inclusi) per impegnarsi in una monomaniacale caccia all’anarchico […]. Per tutto il 1969, gli accusati per quelle bombe sono gli anarchici e, dietro di loro, imputata di tentata strage è la sinistra. Si prepara cioè il clima per la strage riuscita del 12 dicembre, con i responsabili già pronti. Molti segni fanno pensare che anche l’esecutore materiale sia scelto in quella occasione: Pietro Valpreda. Non si spiega altrimenti l’insisitenza con cui commissari di P.S. e magistrati raccolgano, dagli interrogatori degli imputati per le bombe del 25 aprile, elementi contro Valpreda, che per quelle bombe non è neppure indiziato” (16)

 

Come si vede, uno Stato ed un blocco di potere da interrogare ed investigare, più che uno Stato da assolvere, allora come oggi: l’unico modo per contrastare l’autoritaismo più pericoloso, il fascismo – ricordando Pasolini – di certi discutibili sedicenti antifascisti, la fabbrica del consenso.

 

 

NOTE:

(1) https://www.huffingtonpost.it/entry/piazza-fontana-50-anni-dopo-non-fu-strage-di-stato-intervista-a-miguel-gotor_it_5df1e2c0e4b01e0f295a0860

(2) op. cit. nota 1.

(3) op. cit. nota 2.

(4) Sentenza Corte d’Assise di Catanzaro 23.2.1979, cit. in G. BOATTI, Piazza Fontana, Einaudi, 1999, p. 243 e ss.

(5) Memoriale di Ruggero Pan, cit. in G. BOATTI, Piazza Fontana, Einaudi, 1999, p. 243 e ss.

(6) Requisitoria 13.12.1974, P.M. Alesandrini, cit. in G. BOATTI, Piazza Fontana, Einaudi, 1999, p. 243 e ss.

(7) Il 24 maggio 1988 fu arrestata e accusata di spionaggio la bibliotecaria di Campobello di Licata Stefania Bernardi, per il solo fatto di aver affisso in un locale della biblioteca una mappa della Sicilia dove erano segnate le ubicazioni delle basi Nato, notizia peraltro non di così privata conoscenza all’epoca dei fatti, in G. BOATTI, Piazza Fontana, Einaudi, 1999, p. 257.

(8) Atti del Processo celebrato avanti alla Corte d’assise di Catanzaro, in G. BOATTI, Piazza Fontana, Einaudi, 1999, p. 264,272.

(9) P. GINSBORG, Storia dell’Italia dal Dopoguerra ad oggi, Vol. II, Dal miracolo economico agli anni 80, Einaudi, 1989, p. 425.

(10) G. BOATTI, Piazza Fontana, Einaudi, 1999, p. 45.

(11) G. LE BON, La psicologia delle Folle, Mondadori, 1980, p. 14 e ss.

(12) G. TARDE, L’opinion et la foule, 1901

(13) P. MORANDO, Prima di Piazza Fontana, La Prova Generale, Laterza, 2019, p. 12 e ss.

(14) P.P. PASOLINI, Fascista, Intervista a cura di  Massimo Fini per l’Europeo, 26 dicembre 1974, in P.P.PASOLINI, Il fascismo degli antifascisti, Garzanti, 2018, p.77