PREMIERATO, QUALE OPPOSIZIONE?

Nuovo governo, nuova riforma, o meglio, controriforma istituzionale: uno degli sport preferiti da centrodestra e centrosinistra dall’avvio della seconda repubblica.

Tutte le riforme bocciate o parzialmente approvate, a partire dall’introduzione del sistema maggioritario ad inizi degli anni Novanta, erano tese ad aumentare il peso del potere esecutivo su quello legislativo. La gara della decretazione d’urgenza ha attraversato non a caso tutti gli esecutivi che, a fronte della difficoltà a chiudere riforme complessive, hanno di fatto e concretamente ridotto il potere del Parlamento.

Un Parlamento che si trova tra l’incudine di queste riforme e il martello del vincolo esterno della UE che ne ha depotenziato oggettivamente la possibilità di legiferare secondo quella che è la volontà popolare.Il Governo Meloni è quello che sta vincendo la gara della decretazione d’urgenza e propone un modello di cesarismo che investe il Premier del consenso popolare.

Fino a qui, niente di nuovo. La destra presidenzialista propone un sistema di elezione diretta del capo del governo che in questo modo non dipenderà più dal sostegno parlamentare ma sarà esattamente il contrario. Sarà il Parlamento a dipendere da un premier che non potrà eleggere: è chiaro che questo rappresenta un salto di qualità nel depotenziare ulteriormente la rappresentanza. Da questo punto di vista al Presidente della Repubblica (eletto invece dal Parlamento) spetterà solo indicare, con minor peso, i ministri.

Questo aspetto del ruolo del Presidente della Repubblica, che soprattutto negli ultimi dodici anni ha svolto più un ruolo di garante della UE avallando e indicando tutti i governi “tecnici” che si sono susseguiti, è quello su cui di più anche buona parte dell’opposizione concentra la sua attenzione. Purtroppo, proprio per come è stato utilizzato in questi anni che abbiamo alle spalle, questo aspetto rischia di diventare un’arma in mano alla Meloni per giustificare l’ulteriore scempio di quel poco di democrazia formale che è rimasta. Secondo i proponenti della riforma, avendo il Capo dello Stato favorito governi “tecnici”, è proprio eleggendo direttamente il premier con un premio di maggioranza blindato che questo problema sarà risolto. In realtà il “male” non è stato un parlamento rappresentativo che con la politica avrebbe potuto costruire diverse maggioranze, ma l’utilizzo distorto del ruolo del capo dello Stato che ha imposto un commissariamento della UE ad un Parlamento imbelle e depotenziato. L’elezione dei rappresentanti in base al peso reale e proporzionale che hanno nella società è e resta la strada che costringerebbe la politica a tenere conto non soltanto delle spinte dall’alto ma anche quelle dal basso. E il problema con queste riforme sta tutto qua.

Poco si sente dire, infatti, sulla questione del premio di maggioranza al 55% che darebbe al premier eletto la platea perfetta per avere sotto di sé un Parlamento che ratifica le sue scelte (con qualche rallentamento in più avviene già ora). Alla faccia della “democrazia diretta” a cui fa riferimento Giorgia Meloni per presentare la riforma con cui, ovviamente, non c’entra nulla. Ma il Totem della “governabilità”, apparentemente neutro e in realtà legato alla volontà di ridurre la mediazione tra interessi sociali in conflitto tra loro, è noto che non è solo la Meloni e la destra ad averlo agitato come unico parametro su cui ridisegnare le istituzioni di questo Paese.

La proposta è abbastanza pasticciata, come dicono in molti, come tutte le riforme che si sono susseguite negli anni. La ragione delle contraddizioni nasce dai diversi interessi e rapporti di forza tra i soggetti politici che la propongono. Una tra tutte è la possibilità che ci possa essere un secondo premier che sostituisca quello eletto purché tenga lo stesso programma e provenga dalle fila dei parlamentari eletti. Questo aspetto palesa frizioni di potere tra le forze che, con pesi diversi, tendono a ricavarsi uno spazio di manovra in caso di contrasti in futuro con l’attuale premier. L’elemento contingente per favorire questo o quell’altro soggetto politico è stato sempre un po’ il freno di un sistema politico ormai atomizzato e, seppure maggiormente controllabile dal potere economico e politico, ancorato a vizi e problematiche specifiche.

Probabilmente si arriverà al Referendum anche se la strada della discussione è molto lunga. Il tema vero sarà quanto chi si opporrà lo farà in nome della centralità della politica e della rappresentanza svilita da trent’anni di sistema maggioritario declinato in mille forme. Di fronte a venti di guerra che ululano in maniera sempre più forte e a un continuo peggioramento delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione dare un segno sulla possibilità di riconnessione tra i settori sociali subalterni, fuori da tempo dal centro attivo dello scontro politico, e la rappresentanza è centrale. Una sfida che dovrebbe partire dalla domanda sul perché ormai il 50% della popolazione non vota o va raramente a votare.

Probabilmente c’è ancora lo spazio per riaprire una riflessione in questo senso. Ad oggi, infatti, i tentativi di chiudere il cerchio delle riforme istituzionali in senso autoritario si sono spesso arenati non solo per quanto dicevo prima, ovvero gli interessi delle singole forze politiche, ma anche perché tutti i soggetti che siedono in Parlamento fanno fatica a contenere i sussulti e i singulti del malessere popolare senza subirne i contraccolpi.  La storia dimostra che non esiste sistema istituzionale che possa imbrigliare le dinamiche sociali e di classe per un tempo lunghissimo soprattutto in periodi di crisi come questi. La situazione è e resterà fluida perché i nodi di questo sistema economico e sociale continuano di giorno in giorno a venire al pettine.