REGNO UNITO, L’EVIDENTE VITTORIA DEL BREXIT

Le elezioni generali tenutesi il 12 dicembre nel Regno Unito hanno visto, come è ormai noto la grande vittoria del Partito Conservatore di Boris Johnson, il quale ha conquistato la maggioranza assoluta all’interno del parlamento britannico (56,2%), ottenendo 365 seggi, contro i 202 del Partito Laburista.
Con quasi 14 milioni (13.967 mila) di voti, i Tories hanno distanziato nettamente il Partito Laburista di Jeremy Corbyn, che s’è fermato a poco più di 10 milioni (10.269 mila). In termini percentuali, abbiamo rispettivamente il 43,6% e il 32,1%.

Rispetto alle precedenti elezioni del 2017, più che un incremento dei voti del Partito Conservatore – cresciuto, in termini assoluti, di poco più di 300 mila voti – abbiamo un notevole calo di voti per il partito di Corbyn, il quale perde oltre 2 milioni e mezzo di elettori.
Il terzo partito, i Liberal Democrats, aumenta i suoi voti e passa da 2 milioni e 372 mila a 3 milioni 696 mila.
Incrementi più modesti registrano il SNP (Partito Nazionale Scozzese) e i Verdi.

Da notare come il Brexit Party di Nigel Farage, sebbene non abbia conquistato alcun seggio (anche perché alleato, di fatto, con i Tories) ha tuttavia riscosso oltre 640 mila voti, che sono comunque il 2% di elettori.
Sommando questi ultimi ai voti conservatori, otteniamo ben 14 milioni e 609 mila voti, che si possono considerare quasi tutti voti a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea (Brexit).

Che la campagna elettorale britannica sia stata pesantemente condizionata dalla questione del Brexit, infatti, salta agli occhi di tutti.
Ed è anche abbastanza credibile che la sconfitta netta del Partito Laburista sia stata causata probabilmente proprio da una presa di posizione ambigua rispetto al tema in questione.
La proposta di andare ad un secondo referendum, fatta propria da Corbyn – il quale pure sembrava attratto dal Brexit – è stata evidentemente percepita come un ulteriore tergiversare su una questione che in teoria era già stata decisa a maggioranza ormai oltre tre anni fa (il famoso referendum che vide la vittoria degli anti-UE è del giugno 2016).
Né è valso il programma, fortemente progressista del leader dei Labour – aumento del welfare state, nazionalizzazioni, ritiro dei militari inglesi dal Medio Oriente, più tasse per i ricchi, ecc. – ad impedire la debacle.

Dunque, anche se da noi si continua a sostenere e a ripetere che, nonostante tutto, il popolo britannico è in maggioranza favorevole a rimanere nell’Unione Europea, queste ultime elezioni hanno definitivamente chiarito che la verità è un po’ diversa.
Il Partito Conservatore, che ha fatto della Brexit il suo cavallo di battaglia, non solo ha confermato la sua storica supremazia nelle contee agricole del paese, ma ha incominciato a corrodere anche il tradizionale consenso Labour delle zone più urbanizzate ed industrializzate.
In gran parte di queste ultime, per la verità, il Partito Laburista mantiene la maggioranza dei voti. È anche vero che molti operai, o ex operai, probabilmente non se la sono sentita di votare il Partito Conservatore, pur essendo magari a favore del Brexit (che proprio nei distretti industriali – o ex industriali – era andato forte). In alcune di queste contee, tuttavia, tale maggioranza è passata dai Labour ai Tories.

In conclusione, l’esito del referendum britannico di tre anni fa, che vide la vittoria dei fautori dell’uscita dall’UE, appare abbondantemente confermato, se non addirittura amplificato.
Ma sarebbe miope vedere tale spinta, banalmente, come un mero “ritorno alle nazioni” (peraltro mai messe in discussione all’interno dell’UE), e quindi come un sentimento reazionario.
Ciò può essere senz’altro vero per una buona parte dei filo-Brexit di estrazione borghese, legata ad un’economia locale o addirittura al tradizionale colonialismo inglese.
Gran parte della classe operaia, però, già fortemente danneggiata dalla deindustrializzazione, si sente evidentemente minacciata da un’entità, come l’UE, la quale pone tremendi limiti alle possibilità di un paese di gestire la propria economia e di intervenire in caso di crisi, oltre ad imporre pesanti tagli alla spesa pubblica. L’esempio di ciò che è accaduto in Grecia (e non solo lì) scotta ancora.

In ultimo, ma non per importanza, bisognerà vedere se l’uscita della Gran Bretagna dall’UE finirà per rafforzare la tendenza – forse l’unica tendenza apprezzabile dell’UE – a svincolarsi dalla morsa degli Stati Uniti e ad avvicinarsi sempre più alla Russia e soprattutto alla Cina.
Ma questo sarà tutto da verificare.