ELEZIONI AMMINISTRATIVE: VINCE DRAGHI

Ad una prima lettura dei dati elettorali, si osserva che vengono a maturazione tendenze prevedibili sin dalla vigilia.

In primo luogo, il dato dell’astensionismo che ormai viaggia sopra la soglia del cinquanta per cento dei voti manifesta non solo una distanza dei settori popolari dalla politica e dalla rappresentanza in generale, non solo conferma una volontà insita nel sistema elettorale affinché tale astensionismo possa diventare cronico, ma rende ogni lettura dei dati sul piano politico generale parziale ed estremamente precaria. Questo comporta che un’apparente grande vittoria sia da derubricare ad una discreta affermazione e una grave sconfitta in un significativo passo indietro. Una situazione che lascia spazi continuamente e che ad esempio a Roma ha permesso a Calenda di diventare il primo partito della città. Fuori le organizzazioni si è discusso di Green Pass (anche il nulla di contenuti ha pesato sul non voto) e dentro si sono affilati i coltelli.

Questa grande incertezza e precarietà porta a definire il vero vincitore delle elezioni amministrative ovvero Mario Draghi. Nessuna forza, a parte Fratelli d’Italia, si può dire pronta al voto. E qui è necessario un approfondimento sui principali schieramenti che palesano contraddizioni e rischi di scompaginamento dentro un quadro sconvolto dalla pandemia ma ancora narcotizzato dal Governo di “tutti”. Più che la dialettica tra i partiti espressione definita di determinati settori sociali si è determinata una dialettica nei partiti e negli schieramenti alla ricerca di una loro ridefinizione.

A destra lo scontro tra Giorgetti, i governatori del Nord e Salvini ha come centro il destino della Lega. L’abbraccio con Draghi ha messo a nudo le contraddizioni tra l’idea di Partito nazionale di Salvini e quello europeista, legato all’establishment economico indissolubilmente legato ai destini del grande capitale finanziario. Il risultato fortemente negativo della Lega soprattutto nelle grandi città, infatti, può essere letto da una parte come il risultato dell’ambiguità di Salvini e dall’altra come frutto dello snaturamento della vocazione sociale a cui l’appoggio a Draghi l’ha portato. Dentro queste due letture si giocherà la partita interna e la stessa identità leghista. Non si tratta di un dettaglio perché il segnale, seppure da non considerarsi definitivo, verso il carroccio è pesante: Da Milano a Bologna a Torino fino a Trieste perde pesantemente e quasi sempre è superato dal Partito della Meloni.

Al momento è proprio Fratelli d’Italia ad approfittare del ridimensionamento della Lega. Diventa il primo partito del centrodestra e ipoteca un ruolo di primo piano nella dialettica a destra. La rinnovata spinta al bipolarismo che molti osservatori e leaders hanno espresso subito dopo i primi exit poll evidenziano il tentativo di comprimere le stesse forze populiste di destra in un quadro di compatibilità e se questo vale per Salvini potrà contare tanto nel destino della Meloni.

Da questo punto di vista il risultato e le dinamiche ormai aperte nel Movimento Cinquestelle sono nello stesso solco della sponda opposta. Quel movimento onnivoro che pescava a destra come a sinistra ha finito di vivere dopo due mesi del primo governo Conte. Aldilà del venti per cento della Raggi a Roma il Movimento ha preso sberle un po’ ovunque spesso con percentuali a una cifra e sotto al 5%. Sembra prevalere al momento la spinta a far fagocitare l’esperienza grillina nel centrosinistra come dimostrano gli esprimenti di Napoli o della Regione Calabria. C’è da aspettarsi un tentativo di Di Battista per rilanciare un’opzione “ritorno alle origini”, ma di certo quello che è stato il Movimento cinquestelle non sarà più.

C’è da notare come la difficoltà di fondo delle forze politiche sia quella di tenere assieme un blocco sociale o articolazioni di esso. La crisi rende complicatissimo tale obiettivo ma il risultato, almeno per ora, è proprio quello di una stabilità instabile che favorisce il dominio delle forze dominanti.

In tale contesto, il PD che per ora ha esternalizzato le contraddizioni interne (vedi Renzi o Calenda) continua a primeggiare ad esempio a Roma al centro della città faticando nelle periferie. In generale è un dato significativo che nel centro della città prevalgano Gualtieri e Calenda mentre Michetti e Raggi vadano forte in periferia. Il voto stabile dei settori più garantiti, che hanno sempre più un limite in termini di crescita, fa da contraltare al voto in continuo mutamento del voto popolare e proletario. Forse, in questo, sempre per ora sta il “segreto” della tenuta del PD o delle diverse liste della “sinistra” del centrosinitra.

In tutto ciò non mi soffermerò molto sul voto alla sinistra radicale assente con un progetto nazionale credibile ed individuabile a livello di massa. I risultati, tutti su piccole cifre, si differenziano da realtà a realtà. Piccoli segnali si possono notare a Bologna e Napoli con Potere al popolo che in quelle due realtà evidenzia un insediamento reale, come a Torino dove una lista “unitaria” ha raggiunto un buon 2.5% o disastri si possono leggere a Roma e Milano con sei liste da prefisso telefonico.

Ma, questa è l’impressione, gli spazi sono oggettivamente stretti e ci vorrebbe un bagno di umiltà per capire che le elezioni, quando si partecipa, devono servire si a far conoscere le proprie idee ma anche a non mortificarle agli occhi di larga parte della popolazione. Ripetere come un mantra che ogni appuntamento è un punto di partenza rischia di alimentare una comfort-zone dove null’altro viene valutato. Manca un progetto nazionale egemone o almeno al momento non risulta visibile.