GUERRA: ISRAELE VUOLE L’ESCALATION

Come se non bastassero le due guerre già in corso, quella in Ucraina e quella nella Striscia di Gaza (e in misura minore in Cisgiordania), quotidianamente giungono notizie che sembrano andare verso l’apertura di nuovi fronti e intanto uno già si è sostanzialmente aperto: quello nello Yemen.

Partiamo da quest’ultimo. Da quando è incominciata l’invasione della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano e la tremenda mattanza nei confronti del popolo palestinese – siamo già a oltre 20 mila vittime civili, in buona parte bambini – gli Houthi dello Yemen hanno deciso di attaccare tutte le navi-merci israeliane, o dirette in Israele, che passano per lo Stretto di Bab el Mandab. Che, per chi non lo sapesse, è uno stretto situato tra la Penisola Arabica e l’Africa Orientale, ed è un passaggio obbligatorio per la navigazione tra l’Oceano Pacifico e il Canale di Suez.

Si tratta di una pratica tutt’altro che sconosciuta ai “democratici” USA (e non solo), i quali da sempre colpiscono navi merci di paesi che loro giudicano “ostili”, come quelle iraniane, venezuelane, ecc.

Comunque sia, quand’anche questo genere di azioni potesse essere considerato un “atto di guerra”, dovrebbe essere Israele a rispondere e non altri. Assistiamo invece al bombardamento dello Yemen da parte degli USA e del Regno Unito, in modo del tutto arbitrario e bypassando completamente l’ONU.

Non è chiaro che tipo di impatto, a livello militare, possa avere un tale intervento, se considerando il fatto che gli Houthi da anni e anni subiscono bombardamenti da parte dell’Arabia Saudita – nel silenzio mass-mediatico – e dunque non si lasceranno intimorire così facilmente.

Resta il fatto che si è aperto un nuovo fronte in quella che si può ormai considerare a tutti gli effetti una nuova grande guerra, se non proprio la Terza Guerra Mondiale.

 

Ma non finisce qui: le continue e pesanti provocazioni che Israele di Netanyahu sta portando avanti nei confronti di vari paesi del Medio Oriente sono a dir poco inquietanti.

A partire dal 7 ottobre scorso (ma anche prima di quella data) non passa quasi giorno in cui Tel Aviv non colpisca con razzi i villaggi del Libano meridionale, con l’evidente intento di provocare una reazione da parte di Hezbollah. Stesso discorso per quanto riguarda la Siria, in cui lo stesso aeroporto di Damasco è stato più volte oggetto di bombardamenti.

Ancora più grave è stato l’attacco terroristico di Kerman, in Iran dello scorso 3 gennaio, che ha colpito la folla che stava assistendo alla commemorazione del Generale Soleimani – peraltro ucciso qualche anno fa da un attacco di Israele – facendo 87 morti e centinaia di feriti. Difficile non scorgere lo zampino di Netanyahu dietro ciò.

Dobbiamo ai soggetti colpiti, quindi l’Iran, la Siria e Hezbollah, se questi attacchi pesanti da parte di Israele non hanno finora sortito una reazione virulenta. L’incredibile pazienza con cui questi stanno subendo tali atti di guerra, senza quasi reagire, dimostra quanto essi siano dotati di un notevole senso di responsabilità. Tale responsabilità è anche legata alla consapevolezza del rischio che tutti gli attori dell’area corrono se l’incendio si sviluppasse andando fuori controllo. Ma fino a quando e a che punto durerà la convenienza a non accettare lo scontro?

 

Se il tentativo, da parte di Israele di provocare a tutti i costi un’escalation in Medio Oriente – perseguito in modo insistente e aggressivo – è fin troppo palese, il comportamento di Washington non è affatto da ritenersi improntato ad una maggiore prudenza e moderazione. Intanto perché se volesse tenere a bada Netanyahu l’avrebbe già fatto. Poi per il già citato intervento diretto nello Yemen. D’altronde gli Stati Uniti hanno una lunga e consolidata tradizione nella loro politica di seminare caos, devastazioni e conflitti nel Medio Oriente; non dimentichiamoci di ciò che hanno prodotto nei decenni scorsi in Iraq e in Afghanistan.

 

A livello più generale si può affermare che attaccare l’Iran significa colpire in modo indiretto sia la Russia che la Cina. La prima per i forti legami – ultimamente perfino militari – che ha con Teheran e la seconda perché il Medio Oriente è un’area fortemente strategica nella costruzione della “Via della Seta” cinese. E gli Stati Uniti, che stanno attraversando una fase di chiara decadenza, vedono questa politica economica del Dragone come fumo agli occhi.

A proposito di Pechino, stiamo assistendo ad un ennesimo tentativo di provocare un’escalation, da parte degli USA utilizzando il discorso di Taiwan.

Non tira una buona aria…