NUOVO RECORD DELLA SPESA MILITARE STATUNITENSE A 886 MILIARDI

Gli Stati Uniti sono dalla fine della Seconda guerra mondiale la più grande potenza economica, militare, commerciale e tecnologica del mondo. Dalla leadership mondiale dipende anche l’affidabilità del suo enorme debito pubblico. Fino ad ora, ad esempio, la Cina e i paesi arabi hanno finanziato il debito pubblico statunitense acquistando titoli di Stato, perché gli Usa sono i leader mondiali e hanno il dollaro come valuta di riserva e di scambio internazionale. C’è da chiedersi, però, quanto ciò possa durare e se le tensioni geopolitiche tra Cina e Usa possano sfociare in una “guerra del debito”, cioè nella decisione della Cina di ridurre gli acquisti di titoli di stato statunitensi, magari imitata anche da paesi arabi produttori di petrolio come l’Arabia Saudita, che recentemente si è molto avvicinata alla Cina. Ad ogni modo, le previsioni dicono che gli Usa entro dieci anni perderanno la loro supremazia economica nei confronti della Cina, che li sorpasserà dal punto di vista del Pil, mentre il sorpasso da parte dell’India è previsto per il 2075[i]. Non è un caso, quindi, che recentemente Fitch, una delle agenzie di valutazione del credito più accreditate, abbia abbassato il rating del debito pubblico Usa da AAA a AA+. In qualche modo questo declassamento registra gli scricchiolii della posizione di egemone mondiale degli Usa.

Gli Stati Uniti cercano di contrastare queste tendenze negative soprattutto rinforzando la loro egemonia militare. Il Senato Usa ha approvato il bilancio militare del 2024, che fissa un tetto di spesa record a 886 miliardi di dollari, pari al +8% rispetto alla spesa del 2023. La tendenza alla crescita del budget della difesa è ormai una costante degli Usa qualunque sia l’amministrazione, repubblicana o democratica, al potere. Il presidente Biden ha affermato che il sostegno alle Forze armate “è necessario per contrastare la guerra in Ucraina e gestire in modo adeguato la competizione con la Cina in Asia”[ii].

Secondo l’economista Jeffrey Sachs, già direttore dell’Earth Institute presso la Columbia University, le enormi spese militari statunitensi sono responsabili dell’enorme debito pubblico statunitense, che è cresciuto dal 35% del Pil di inizio secolo al 95% del 2022. Il costo delle guerre statunitensi dal 2001 al 2022 raggiunge gli 8mila miliardi di dollari, vale a dire più della metà dei 15mila miliardi di debito aggiuntivo accumulato, mentre gli altri 7mila miliardi derivano dalle spese per contrastare la crisi finanziaria del 2008 e la pandemia di Covid 19. Sempre secondo Sachs, la spesa militare degli Usa vale ora circa il 40% del totale mondiale e il triplo di quella della Cina.

Secondo il Sipri, un istituto di studi sulle questioni della pace sito a Stoccolma, la spesa degli Usa, a prezzi costanti, è passata dai 570 miliardi del 2002 agli 811,6 miliardi del 2022, superando abbondantemente quella cinese che si è attestata a 298 miliardi di dollari e quella russa, che è di appena 72 miliardi[iii]. La Cina comunque non sta a guardare e negli ultimi dieci anni ha anch’essa aumentato la spesa militare pur rimanendo molto lontana dagli Usa. Nel 2012 la spesa cinese rappresentava il 19,8% di quella statunitense, mentre nel 2022 è arrivata al 37%. La spesa russa invece nel 2012 era pari al 6,9% di quella statunitense, mentre nel 2022 è arrivata all’8,7%. Quella in atto è quindi una vera e propria corsa agli armamenti.

Sempre Sachs pone l’accento sull’azione di lobby, cioè di influenza sugli organismi politici, del “complesso militare industriale” statunitense, che rappresenta le imprese industriali del settore militare. Già nel 1961 il presidente Dwight Eisenhower metteva in guardia contro questo apparato: “Nei consigli governativi, dobbiamo guardarci le spalle contro l’acquisizione di influenze che non danno garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà nel futuro.”[iv]

La forza del complesso militare-industriale statunitense appare evidente se guardiamo la classifica del 2021, redatta dal Sipri, delle prime 100 imprese industriali militari del mondo[v]. Ben 40 imprese sono statunitensi, e tra queste ci sono le prime cinque: Lockheed Martin, Raytheon Technologies, Boeing, Northrop Grumman Corp. e General Dynamics Corp. Molto meno forte è la presenza delle imprese militari cinesi. Nel 2015 c’erano tre imprese cinesi tra le prime 10, una al settimo posto, una all’ottavo e una al decimo posto e in totale le imprese cinesi erano sette, nel 2021 tra le prime 10 c’erano quattro imprese, tra il settimo e il decimo posto, mentre le imprese totali erano otto. In sintesi le prime 10 imprese sono statunitensi o cinesi, con la sola eccezione della britannica Bae Systems, che occupa il sesto posto.

Per quanto riguarda le esportazioni, la parte del leone nel 2022 viene svolta dagli Usa, seguita dalla Francia, dalla Russia e dalla Cina. Viceversa per quanto riguarda le importazioni di armi, il primo posto è occupato dal Qatar, seguito dall’India, dall’Ucraina, dall’Arabia Saudita e dal Kuwait[vi].

Vediamo ora la posizione dell’Italia. Nella classifica del Sipri ci sono solo due imprese italiane: Leonardo al dodicesimo posto e Fincantieri al quarantaseiesimo posto. In più va menzionata Mbda, al ventisettesimo posto, che è partecipata al 37,5% sia da Airbus sia da Bae Systems e al 25% da Leonardo. Mbda è leader europeo nel mercato di missili con una quota del 43%, che a livello mondiale si attesta al 16%. Va rimarcato che Leonardo è la prima azienda bellica della Ue e la seconda in Europa dopo Bae Systems. Il gruppo italiano recentemente è risultato leader di 18 progetti di ricerca militare finanziati dall’European Defence Fund, che nel complesso hanno raccolto il 74% dei fondi stanziati, pari a un valore di 614 milioni di euro su un totale di 832 milioni distribuiti tra i 41 progetti vincitori[vii]. Sempre per quanto riguarda l’Italia, si registra la crescita della spesa militare, a prezzi costanti, dai 29,1 miliardi di dollari del 2012 ai 34,6 miliardi del 2022. Inoltre, l’Italia è la quinta esportatrice di armi a livello mondiale, subito dopo la Cina.

In sintesi, bisogna rilevare che è in atto un riarmo generalizzato: la spesa militare sta aumentando in tutto il mondo. La guerra in Ucraina e la politica di contrasto degli Usa nei confronti della Cina spingono all’aumento dei budget militari. La tendenza alla decadenza economica degli Usa li conduce a privilegiare lo strumento militare, per contrastarla, trascinando con sé gli altri paesi, che cercano di non rimanere indietro. Tuttavia questa risposta rappresenta un processo con un duplice e contraddittorio aspetto. Gli Usa fanno leva sull’egemonia militare per sostenere il debito pubblico (e commerciale), ma proprio le spese militari fanno lievitare verso l’alto il debito pubblico. La questione militare è, quindi, importante per capire la natura parassitaria tipica dell’imperialismo statunitense che, attraverso il debito pubblico e il dollaro, drena risorse da tutto il mondo, per sostenere un apparato bellico ridondante che ha lo scopo di imporre agli altri paesi quello stesso drenaggio. Si tratta di uno spreco enorme di risorse, che potrebbero essere impiegate meglio e più proficuamente in settori della spesa sociale, come la sanità, dei paesi avanzati e specialmente nei paesi della periferia povera del sistema economico mondiale.

 

 

 

 

[i] Alessandro Graziani, “Colpo agli Usa ma l’Europa non può dirsi al sicuro”, Il Sole 24 ore, 3 agosto 2023.

[ii] Luca veronese, “Budget record per la difesa Usa ma è scontro al congresso”, Il Sole 24 ore, 29 luglio 2023

[iii] Sipri, Military Expenditure database. https://www.sipri.org/databases/milex

[iv] http://www.internetsv.info/DEisenhower.html

[v] Sipri, Arms Industry Database. https://www.sipri.org/databases/armsindustry

[vi] Sipri, Arms Transfers Database. https://armstrade.sipri.org/armstrade/page/toplist.php

[vii] Sara Deganello, “Leonardo fa il pieno di fondi Ue, oltre 600 milioni per la ricerca”, Il Sole 24 ore, 22 luglio 2023.